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Risk Management

Il Blog di Mauro Del Pup

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Postilla » Impresa » Il Blog di Mauro Del Pup » Management » Disastro British Petroleum: è mancata solo una politica di Risk Management?

8 marzo 2011

Disastro British Petroleum: è mancata solo una politica di Risk Management?

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Dopo un periodo di silenzio su questo blog, ritorno con piacere a scrivere e ringrazio prima di tutto la redazione di Postilla per la pazienza e poi anche i colleghi blogger e i lettori che non volevo affatto trascurare.

Riparto con un bilancio del disastro che, quasi un anno fa (era il 20 aprile 2010), la BP causava nel Golfo del Messico con la fuoriuscita di petrolio dalla piattaforma_petrolifera_Deepwater_Horizon. E’ stato definito il disastro ambientale più grave della storia americana, avendo superato di oltre dieci volte per entità quello della petroliera Exxon Valdez nel 1989, ed è sempre amaro sapere ex post che l’esplosione della piattaforma si poteva evitare. Tra le cause ci sono state infatti le scelte sbagliate dei manager della compagnia petrolifera che hanno badato più all’esigenza di abbassare i costi di gestione, che a quella di garantire la sicurezza. Queste le conclusioni della National oil spill commission, la commissione incaricata dalla Casa Bianca di investigare sull’esplosione della piattaforma (consiglio di scaricare e di leggere il Final Report  DEEP WATER).

“British Petroleum”, ha scritto la commissione, “non disponeva di un sistema di verifiche adeguate per assicurarsi che le decisioni chiave prese nei mesi precedenti all’esplosione fossero sicure da una punto di vista di ingegneria”.

E ancora: “Molti degli errori di valutazione e delle negligenze nel caso del pozzo Macondo possono essere imputate ad un singolo problema dominante: un pessimo management“.

E’ bene che abbia atteso qualche mese per pubblicare questo post (l’avevo preparato l’anno scorso) poiché le conclusioni a cui è arrivata anche la citata commissione voluta dalla Casa Bianca, dice che la causa fu di chi doveva guidare e gestire la Bp. E allora, anche la lettura dell’articolo BP’s risk management lapse, assume un altro sapore. Non si tratta solo di mancata applicazione dei principi di Risk Management che mi hanno insegnato, bensì di inadeguatezza dello stesso management di Bp. Un passaggio chiave dell’articolo appena citato è il seguente: “That mentality reveals non-existent Risk Management and may be why BP did not take extra precautions such as relief wells or back-up systems. If you think a problem will cost “only” US$75 million then why spend that much on precautions?”

Tradotto: Tale mentalità rivela l‘inesistenza di una politica di Risk Management e può essere questo il motivo per cui BP non ha preso ulteriori precauzioni come pozzi di rilievo o di sistemi di back-up. Se pensate che un problema costerà “solo” 75 milioni dollari allora perché spendere così tanto sulle precauzioni?

L’operaio Tyrone Benton, sopravvissuto all’incidente, ha dichiarato che la compagnia sapeva che c’erano falle nel sistema di sicurezza della piattaforma Deepwater Horizon già settimane prima che questa esplodesse e che la responsabilità della manutenzione dell’attrezzatura era della compagnia proprietaria della piattaforma, la Transocean, la quale però ha replicato di aver testato con successo quel sistema prima del disastro. Il dispositivo in questione, progettato per impedire le fughe di gas, è il “Blowout preventer” (Bop), ed è il più critico dell’intera piattaforma, perché in grado di tagliare e bloccare il flusso di petrolio dalla condotta principale. Il Bop è stato progettato per prevenire disastri proprio come quello accaduto il 20 aprile nel Golfo del Messico e il suo “cervello” è costituito da unità di controllo (i cosiddetti “control pods”) predisposte per rilevare le irregolarità. “Abbiamo notato – racconta Benton – una perdita sull’unità di controllo e abbiamo informato gli uomini della compagnia: si trovavano in una postazione dalla quale potevano accendere o spegnere l’unità e accenderne un’altra, così da non dover necessariamente interrompere la produzione”. Riparare l’unità di controllo piuttosto che attivarne un’altra avrebbe però significato interrompere temporaneamente l’attività di trivellazione sulla piattaforma Deepwater Horizon, che – costava alla BP 500mila dollari (circa 400mila euro) al giorno.

Ora sappiamo che non è dipeso solo da una mancata politica di gestione dei rischi, quanto piuttosto da una incapacità del management e in questi casi, c’è ben poco da fare. Un management che ha preferito risparmiare quei 75 milioni di dollari di cui si parla nell’articolo, ma che ha costretto la Bp a versare 20 miliardi di dollari in un fondo per i risarcimenti dei danni provocati dalla marea nera e che non pagherà i dividendi agli azionisti.

Forse, allora, si fa più Risk Management nelle nostre PMI che rischiano ogni giorno per stare sul mercato e non possono fare ricorso a profitti spaventosi.

E veniamo ai danni del disastro ambientale che sono impossibili da calcolare, tuttavia è possibile farne una stima.

I danni diretti, cioè quelli immediatamente visibili ed evidenti sono:

  • il valore economico, non stimabile né riparabile, della perdita di 11 vite umane;
  • il valore economico, non stimabile né riparabile, del danno ambientale procurato;
  • il valore economico della piattaforma (equivalente a circa 560milioni di dollari), degli investimenti per la trivellazione del pozzo (andati in fumo), la perdita azionaria della British Petroleum, della Transocean e della Cameron International;
  • il costo dei primi soccorsi, per lo spegnimento dell’incendio ed il salvataggio del personale della piattaforma e la ricerca dei dispersi, il costo dell’operazione per la calata della cupola più il costo della cupola da 100 tonnellate, il costo delle operazioni per arginare o tappare la fuoriuscita dal pozzo;
  • il costo per il tentativo di arginare l’area sul mare dove si è sparso il petrolio fuoriuscito;
  • il costo per limitare il danno tentando la bonifica delle acque e delle coste e la pulizia degli animali.

Fra quelli indiretti, cioè quelli correlati, ma non strettamente conseguenti al disastro, vi sono:

  • il danno all’industria locale della pesca;
  • il danno all’industria del turismo;
  • l’aumento del prezzo del petrolio.

Infine, dopo tutto questo, mi sono chiesto in quale situazione finanziaria si trovasse oggi la Bp: ecco una breve risposta che riporto dal seguente articolo linkato e che ci deve far riflettere.

Dopo il disastro Bp torna all’utile: il terzo trimestre 2010 di Bp si è comunque concluso con un risultato superiore alle attese con un utile netto di 1,79 miliardi di dollari, in calo del 66,5% rispetto ai 5,34 iliardi del 2009, quando ancora il disastro costato la vita a 11 dipendenti della piattaforma non si era verificato. Sui conti della società britannica continueranno comunque a pesare per lungo tempo i danni ambientali e quelli dovuti alle popolazioni colpite dall’inquinamento delle coste, oggi stimati in 39,9 miliardi di dollari.

Chi vuole dire qualcosa? 

Letture: 13624 | Commenti: 7 |
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7 Commenti a “Disastro British Petroleum: è mancata solo una politica di Risk Management?”

  1. Marzio Marigo scrive:
    Scritto il 9-3-2011 alle ore 11:52

    Non so.

    Di fronte ad una simile catastrofe risulta difficile valutare complessivamente l’evento.
    Leggerò sicuramente il rapporto (grazie Mauro della segnalazione), tuttavia credo che di fronte ad eventi così estremi la possibilità di valutazione risulta limitata sia dalle nostre categorie logiche, sia dai paradigmi all’interno dei quali ci muoviamo.

    Mi chiedo, quante azioni e quante operazioni con possibili rischi di catastrofe vengono messe in atto ogni giorno nei più disparati settori (chimico, nucleare e aeronautico)?
    Certo, ci sono responsabilità. E grandi. Ma la valutazione a posteriori è sempre affetta da un “bias” ineliminabile.

    Forse l’insegnamento che possiamo trarre da una catastrofe di queste dimensioni è la constatazione che i metodi di valutazione preventiva sono comunque “umani”, si appoggiano all’euristica della disponibilità e non possiedono per questo un’affidabilità assoluta. Anche se applicati ai massimi livelli di sofisticazione (es. FTA, FMECA, Montecarlo, ecc.)

    D’altra parte l’unico altro strumento che esiste, nella valutazione preventiva, è il “principio di precauzione”. La cui pratica applicazione si è vista in occasione dell’eruzione del vulcano islandese.
    Nell’incertezza blocchiamo tutto.
    Siamo in grado noi, “mondo occidentale”, di affrontare le conseguenze reali del “principio di precauzione”?

    Ciao

    Marzio

  2. Daniele scrive:
    Scritto il 9-3-2011 alle ore 12:30

    Personalmente credo che l’ultimo periodo “dopo il disastro torna l’utile” di questo post spieghi piuttosto bene il fatto che le politiche di risk management abbiano funzionato perfettamente.
    Si dovrebbe parlare maggiormente di bilancio ambiantale e sociale. Del resto questi sono argomenti che piacciono sempre poco.

  3. Mauro A. Del Pup scrive:
    Scritto il 13-3-2011 alle ore 22:48

    @Marzio: sarei completamente d’accordo con te se qualche strumento di valutazione del rischio fosse stato adottato, ma in questo caso pare che alla base di tutto vi sia una scarsa cultura della sicurezza (direi dei rischi in generale) tanto che nelle prime pagine del rapporto citato si legge:

    “The explosive loss of the Macondo well could have been prevented“.

    “The immediate causes of the Macondo well blowout can be traced to a series of identifiable mistakes made by BP, Halliburton, and Transocean that reveal such systematic failures in Risk Management that they place in doubt the safety culture of the entire industry“.

    E’ interessante, poi, quanto scrivi riguardo al “principio di precauzione”, ma non mi pare sia questo il caso: che dici?

    Un saluto.

  4. Mauro A. Del Pup scrive:
    Scritto il 13-3-2011 alle ore 22:59

    @Daniele: credo che i profitti di fine 2010 siano stati realizzati non tanto perché “le politiche di risk management abbiano funzionato perfettamente“, dato che con una perdita di 20 miliardi di dollari (pare siano già almeno il doppio) un risk manager sarebbe stato cacciato su due piedi, in quanto la gestione dei rischi mira ad evitare i possibili danni e ad accrescere il valore della società, obiettivi che non mi pare siano stati perseguiti con successo dalla BP.
    Un’altra società sarebbe già stata dichiarata fallita, mentre gli alti profitti della BP le consentono di superare il momento.
    Quello che mi chiedo è se in BP abbiano imparato la lezione e ci sia un cambiamento delle politiche di Governance della società, magari anche rispetto ai bilanci ambientali e sociali.

  5. Marco Magi scrive:
    Scritto il 19-5-2011 alle ore 20:29

    te lo mando cosi…ciao

  6. Mauro A. Del Pup scrive:
    Scritto il 7-11-2011 alle ore 23:41

    Un articolo ad oltre un anno dalla vicenda.

    http://aulascienze.scuola.zanichelli.it/2011/05/10/deepwater-horizon-ad-un-anno-dalla-marea-nera/

  7. Lombardi Alessandro scrive:
    Scritto il 17-10-2016 alle ore 08:33

    Ciao Mauro, ci siamo scambiati l’idea su quale corso di formazione fare tra Mip e Anra. Avrei deciso Mip per qualità a me sembra migliore. Ho un dubbio o meglio ti spiego il mio obiettivo. Sono un broker e mi occupo ovviamente prima di fare una polizza di analizzare i rischi del cliente e poi presentarli ad una compagnia. vorrei aumentare il grado di cultura in modo da rivendermi anche con un valore aggiunto e per questo ho pensato al risk management. che ne pensi è pagato tutto questo percorso o è solo cultura_? ovvimente in Italia.

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